STORIA DELLA FOTOGRAFIA
La storia della fotografia è la storia del graduale perfezionamento di due procedimenti: del processo inteso ad ottenere l'immagine nella camera oscura, e di quello inteso a fissare fotochimicamente l'immagine. Lo sviluppo dei due procedimenti non è stato parallelo: quello della camera oscura ha preceduto di molti secoli quello del materiale sensibile.
La prima delle camere oscure risale a Alhazen di Basra (X sec.), il maggior studioso di ottica del Medio Evo, che la impiegò per osservare l'immagine del sole durante una eclisse. Descrizioni dello stesso dispositivo, adatto altresì alla proiezione dell'immagine di un oggetto terrestre, si ebbero anche da parte di Leon Battista Alberti e di Leonardo da Vinci. Nella prima edizione della sua "Magiae naturalis libri IV" (1553) Giovanni Battista della Porta, descrisse ampiamente la camera oscura (della quale fu ritenuto ideatore); quindici anni più tardi, Daniello Barbaro applicò una lente ad un foro della camera oscura, ottenendo immagini più nitide. Con varie modificazioni la camera oscura fu impiegata per ridisegnare le immagini in essa formate; l'uso di specchi opportunamente disposti permise di dare alla camera oscura la forma di un tavolo da disegno e sul piano trasparente di esso venivano a formarsi immagini che potevano essere ricopiate a mano su fogli di carta. Pareva naturale, in tali condizioni, la ricerca di mezzi adatti a fissare le immagini prodotte nella camera oscura senza dover ricorrere alla lenta e laboriosa opera di copiatura manuale. La risoluzione di questo problema venne dallo sviluppo di ricerche sistematiche sulla già nota proprietà di numerose sostanze (in particolare sali d'argento) di alterarsi se esposte alla luce.
A constatare la sensibilità alla luce del nitrato d'argento fu la casuale scoperta rilevata dal medico tedesco Johann Heinrich Schulze nel 1725 nel mentre cercava di ricavare del fosforo mescolando gesso e acido nitrico.
Ulteriori ricerche vennero condotte nel 1777 dal chimico svedese Carl Wilhelm Scheele, il quale ripeté le esperienze di Schulze con il cloruro d'argento.
Nel 1802 in Inghilterra, due ricercatori, Thomas Wedgwood e Humphry Davy, pubblicarono i loro esperimenti sulle stampe a contatto, realizzate esponendo alla luce del sole oggetti, opachi o semitrasparenti, sovrapposti a supporti resi sensibili con una soluzione al nitrato d'argento; l'inconveniente di tutto il procedimento era la permanenza della sensibilità dell'immagine che scompariva se esposta alla luce.
Determinante fu la scoperta, nel 1819 ad opera di William Herschel dell'iposolfito di sodio (tiosolfato) per il fissaggio dell'immagine riprodotta su carta sensibile.
Un altro grande sperimentatore fu W.H.Fox Talbot, al quale viene attribuita la paternità del sistema di fotografia basata sul procedimento negativo-positivo, che diede il via al procedimento basato sul fenomeno dell'immagine latente: tale immagine, impressionata su un supporto, impregnato di ioduro d'argento, veniva resa visibile con una soluzione di acido gallico di nitrato d'argento e quindi fissata con iposolfito. Il negativo che ne risultava, trattato con cera, poteva poi essere stampato a contatto su carta sensibilizzata col cloruro d'argento, ottenendo in tal modo quante positive si volevano. A questo procedimento diede il nome di calotipia. Nel 1841 brevettò una versione migliorata di questo procedimento che chiamò talbotipia.
Quando, qualche anno prima, il 7-I-1839 lo scienziato François Arago aveva preannunciato, all'Accademia delle scienze e delle arti di Parigi, i risultati degli esperimenti fotografici di Daguerre, Talbot aveva cercato di stabilire la sua priorità di inventore presentando, il 25 dello stesso mese, alla Royal Institution di Londra, il suo sistema di fotografia denominato "disegno fotogenico".
Il 19 agosto 1839 Louis-Jacques Mandé Daguerre rese pubblici i suoi esperimenti. Va rilevato che con lui aveva collaborato e condiviso le comuni ricerche lo sfortunato inventore francese Joseph Nicéphore Niepce che aveva ottenuto dei buoni successi con un tipo di asfalto conosciuto come "bitume di Giudea". Alla morte di Niepce, Daguerre continuò le ricerche ideando un procedimento che battezzò daguerrotypie (dagherrotipia).
Il dagherrotipo si otteneva utilizzando una lastra di rame oppure di ottone ricoperta di uno strato d'argento e sensibilizzata con una opportuna esposizione ai vapori di iodio; la lastra veniva quindi esposta, entro un'ora, in un apparecchio fotografico per un una ventina di minuti; lo sviluppo avveniva mediante vapori di mercurio a circa 75°C, che rendevano biancastre le zone precedentemente esposte alla luce; il fissaggio conclusivo si otteneva con una soluzione di iposolfito di sodio, e poi lavata ed essicata.
L'immagine ottenuta, il dagherrotipo, non era riproducibile e doveva essere osservata sotto un angolo particolare per riflettere la luce in modo opportuno. Inoltre, a causa del rapido annerimento dell'argento e della fragilità della lastra, il dagherrotipo veniva racchiuso sotto vetro, all'interno di un cofanetto impreziosito da eleganti intarsi in ottone, pelle e velluto.
Il primo esperimento di dagherrotipia in Italia fu tenuto il 2 settembre 1839 a Firenze con attrezzatura prodotta da Giroux. In America la dagherrotipia, importata già nel 1839 da Samuel Morse e Francois Gourard, allievo di Daguerre, ottenne un vasto successo. Fu utilizzata per ritrarre i membri del Congresso e i territori di confine con il Canada, per mano di Edward Anthonye cinque dagherrotipi fecero conoscere le cascate del Niagara al mondo. All'Esposizione universale di Londra la qualità dei dagherrotipi americani fecero guadagnare agli Stati Uniti tre medaglie su cinque.
Il procedimento di Niepce e la dagherrotipia, oltre ai procedimenti consimili, differivano però sostanzialmente dai moderni procedimenti fotografici. Essi, infatti, davano direttamente un'immagine positiva unica e invertita, da cui non si potevano ottenere copie. Precursori, quindi, dei moderni procedimenti fotografici, furono la calotipia e la talbotipia di Talbot.
Le ricerche ed i perfezionamenti fotografici, degli anni immediatamente successivi, si rivolsero al supporto e alla composizione dello strato sensibile.
Nel 1847 Claude Niepce de Saint-Victor, cugino di Nicéphore, inventò la lastra all'albumina: l'albume d'uovo, accuratamente sbattuto, veniva steso sul supporto e lasciato essiccare, poi la lastra veniva sensibilizzata mediante immersione in una soluzione di sali d'argento.
Nel 1850 Frederick Scott Archer, architetto appassionato di chimica, ricercando risultati migliori di quelli ottenibili con negativi su carta (procedimento calotipico) inventò il procedimento al collodio umido, primo sistema pratico per realizzare negativi duraturi su lastre di vetro, più facili da stampare rispetto ai negativi di carta. Inoltre la qualità del collodio umido era superiore a quella della calotipia e la sensibilità paragonabile a quella del dagherrotipo. I particolari della sua invenzione vennero pubblicati nel 1851 sulla rivista The Chemist: il collodio, una sorta di pasta giallastra ricavata da fulmicotone (nitrato di cellulosa), sciolto in alcool e con l'aggiunta di ioduro di potassio, veniva steso perfettamente su di una lastra di vetro ove si depositava sotto forma di sottilissima pellicola; la lastra così preparata doveva essere immediatamente sensibilizzata, esposta e sviluppata entro 20 minuti prima che il collodio si essiccasse.
Solo l'invenzione del negativo su lastra asciutta che impiegava gelatina, in luogo del collodio, per fissare gli alogenuri d'argento alle lastre di vetro, invenzione dovuta al medico inglese Richard Leach Maddox che la divulgò nel 1873, trasformò la fotografia in qualcosa di pratico ed alla portata di molti, in quanto rendeva possibile preparare le lastre in anticipo e rimandare il trattamento al momento più comodo dopo l'esposizione.
Molto successo ebbero due variazioni del procedimento al collodio, per renderlo direttamente positivo.
La prima venne realizzata da F.S.Archer e brevettata nel 1854 dall'americano James Ambrose Cutting col nome di ambrotipia. Aggiungendo al bagno di sviluppo cloruro mercurico o acido nitrico, l'immagine sulla lastra acquisiva una tonalità bianco grigiastra che sovrapposta ad una superficie nera appariva positiva. L'ambrotipo veniva conservato in astucci pass-partout o in cornici di vetro come si usava per il dagherrotipo, più costoso e difficile da realizzare. Non per nulla l'ambrotipo sostituì ben presto il dagherrotipo, almeno per quanto riguarda il ritratto.
La seconda, ferrotipia, brevettata da un altro americano, Hannibal L. Smith, professore di chimica, consisteva nello stendere il collodio su una sottile lastra metallica precedentemente laccata di nero. Dopo lo sviluppo, la lastra veniva montata in un contenitore pieghevole di cartone. Anche in questo caso l'immagine poteva esser vista in positivo. L'intero procedimento, che richiedeva all'incira un solo minuto, venne largamente usato lungo le strade dai fotografi itineranti sino alla seconda guerra mondiale.
Ma la vera rivoluzione arrivò nel 1878 quando Charles Bennet scoprì che la sensibilità delle lastre di vetro con emulsione "secca" poteva essere aumentata moltissimo semplicemente riscaldando a lungo l'emulsione prima di stenderla sulla lastra di vetro. Il successo fu immediato e da quel momento cominciò la fabbricazione delle lastre sensibili su scala industriale, inoltre, i tempi di esposizione richiesti per la gelatina secca resero possibile la creazione di fotocamere. In questo mercato in rapida espansione George Eastman, il fondatore della Kodak, diventò uno dei più grandi fabbricanti delle prime pellicole in rulli; nel 1888 lanciò sul mercato il primo apparecchio Kodak (EASTMAN KODAK).
Un'altra importante scoperta venne dal tedesco H. W. Vogel, docente di fotochimica al politecnico di Berlino, che nel 1873 trovò il modo di rendere sensibile il bromuro d'argento alle radiazioni gialle e verdi, e nel 1884 a quelle arancioni e rosse. Vogel, con i suoi "sensibilizzatori ottici", creò dapprima le emulsioni ortocromatiche, poi le pancromatiche, ponendo le premesse fondamentali per le ricerche sulla fotografia a colori naturali.
Le ricerche, in linea di massima, possono dirsi concluse soltanto ai giorni nostri.